venerdì 30 ottobre 2009

Sex and the city...

...di Candace Bushnell.

Avete presente la serie tv? Quella con 4 amiche trentenni, single, disinibite, divertenti e brillanti? Quella piena di battute ironiche sul sesso, sull'amore, sulla vita?
Ce l'avete presente?
Perfetto!
Ora scordatevela.
Dimenticatela, se volete leggere questo libro. Io non ve lo consiglio, ma nel caso la curiosità fosse più forte dell'istinto di sopravvivenza, almeno, vi ho avvertito.

Non si tratta di un romanzo. Non si tratta di una serie di racconti. Si tratta di una serie di articoli, che ricordano vagamente la rubrica che la Carrie televisiva tiene sul giornale, aventi naturalmente come argomento pricipale il sesso e le relazioni sentimentali.
Difatti, il libro è ispirato dalla rubrica che la Bushnell tiene sul New York Observer.
Ma non c'è un grammo di ironia neanche a pagarlo. Non c'è nulla di intelligentemente divertente.
Solo la cruda, piatta, noiosa descrizione delle difficoltà di relazione del newyorkese medio, che si dibatte fra sesso senza amore, droga, alcool e paura di impegnarsi.
Non c'è una trama, un filo conduttore; non ci sono nemmeno protagonisti fissi, ma una serie di tizi di cui sappiamo poco a o nulla, che vanno e che vengono, a cui capitano delle cose che poi l'autrice ci racconta.

Emerge poi dalle pagine un certo inquietante scetticismo verso la possibilità dell'esistenza di una coppia stabile ed innamorata. E forse questa potrebbe essere la parte più interessante del libro, perchè, d'accordo o meno con questa teoria, fa riflettere.
E fa pensare che l'intento della Bushnell fosse di descrivere, dal punto di vista sociologico, le abitudini sentimentali e sessuali degli abitanti di New York.
Se questo era il suo intento, probabilmente ha centrato l'obiettivo, ma ciò non toglie che la lettura possa risultare piuttosto pesante e senza attrattive per il lettore, specie per quello distante dalla realtà americana.

Ma se questo era realmente il suo intento, perchè ha permesso alla HBO di snaturare così tanto i suoi scritti, e di trasformare il suo studio, non privo di acidità e amarezza, in una brillante commedia, ironica e leggera?
Certo, questi non sono affari miei. L'autrice avrà avuto le sue motivazioni, ma ciò non toglie che purtroppo questo ha provocato un completo travisamento sui contenuti del libro. Mi aspettavo una cosa, e me ne sono trovata tra le mani una completamente diversa, e ciò ha influito sul mio giudizio negativo.

venerdì 23 ottobre 2009

Io sono Dio...

...di Giorgio Faletti.

Oddio, da dove comincio? E quando scrivo da dove comincio, intendo, da dove comincio a massacrare questo libro?
Sì, intendo proprio massacrare, perchè sono arrabbiata. E tanto.

Quello che mi fa rabbia è che secondo me, Faletti è bravo; ho letto tutti i suoi romanzi, e adoro quel suo modo di giocare con le parole, di costruire una prosa poetica ma non ampollosa o contorta. Però mi pare che in Io sono Dio è rimasto solo quello.

Cominciamo dall'inizio. Un ex soldato americano rimasto gravemente ustionato dal napalm in Vietnam, appena dimesso dall'ospedale, medita vendetta contro un paese che l'ha mandato a combattere quella sporca guerra.
Circa 30 anni dopo, in un cantiere viene ritrovato lo scheletro di un uomo. Accanto a lui due fotografie sbiadite, che ritraggono un ragazzo in divisa accanto a un carro armato, e lo stesso ragazzo, in borghese, con un grosso gatto nero a tre zampe.
Incaricata delle indagine è la giovane detective della polizia, Vivien Light.
Pochi giorni dopo, un palazzo nel Lower East Side di New York viene fatto saltare in aria con napalm e tritolo. Apparentemente, le due cose non hanno legame alcuno, finchè alla polizia non si presenta un fotoreporter in crisi, Russel Wade, che è venuto in possesso di una vecchia lettera, cui mancano delle pagine.
Nei fogli in mano sua, un uomo chiede a suo figlio di vendicarlo facendo saltare in aria alcuni palazzi di New York, da lui stesso minati anni prima quando lavorava nei cantierei che li hanno costruiti. La lista degli edifici minati manca, ma allegata alla lettera, c'è una foto dello stesso ragazzo con lo stesso gatto nero ritratti nelle immagine accanto al cadavere del cantiere.
Russel Wade chiede e ottiene il permesso di seguire le indagini e insieme a Vivien, si mette a caccia del pazzo che minaccia di uccidere centinaia di persone innocenti.


Questa è, grosso modo, la trama.
Come detto in precedenza lo spunto è originale e interessante (cosa vuol fare quest'uomo distrutto per vendicarsi? Perchè aspetta trent'anni per farlo? Cosa lega i fatti accaduti in Vietnam con quelli che stanno accadendo a New York oggi?).
Purtroppo lo svolgimento della trama è alquanto banale.

Partiamo dalla protagonista, Vivien. Non so se esista un personaggio di thriller più stereotipato di lei. E' giovane e carina (se sei brutta, non ti assumono nella polizia di New York, e poi mi chiedo anche un'altra cosa: ma le detective donna ultraquarantenni, che fino fanno nella polizia americana? Le nascondono in uno scantinato quando arrivano gli scrittori? Non sia mai che in un romanzo se ne veda una...); è una tipa tosta che preferisce lavorare da sola; ha una triste storia familiare alle spalle; non relazioni sociali di alcun tipo perchè è sposata col suo lavoro e per finire... ta-daa! Si innamora del suo partner a pagina 318.(Beh, almeno questa è una nota originale, perchè i due non si mettono insieme alla fine del romanzo, secondo la logica del "ne abbiamo passate tante insieme, adesso facciamo anche sesso!", ma decidono di farlo a metà strada.)
Che poi non si capisca perchè due persone così diverse, che si conoscono da circa 48 ore, decidano di essere fatte l'una per l'altra mentre intorno i palazzi saltano per aria...beh, è un altro paio di maniche.

Il co-protagonista maschile, Russell, mostra invece sprazzi di orginalità.
Naturalmente ha anche lui una storia tristissima alle spalle, riguardante la morte del fratello, fotoreport nelle zone di guerra (figurarsi: un'indagine non te la fanno nemmeno leggere sul giornale, se non hai episodi catastrofici nel tuo passato), però c'è in lui qualcosa che interrompe la consueta linea di dolore--->crisi esistenziale---> tentativo di riscatto.
Alla morte del fratello, Russel, che per tutta la vita aveva vissuto nella sua ombra, ha reagito in maniera inconsueta: ha rubato un suo grande scatto inedito, spacciandolo per suo e vincendo così il premio Pulitzer. Smascherato, sopporta il peso della sua vergogna come una penitenza, un'espiazione per il fatto che suo fratello, adorato dai genitori e da tutti, sia morto, e lui sia sopravvissuto.
Ho trovato questa caratterizzazione di Russel oltremodo interessante. Almeno, è fuori dai soliti schemi.

Dopo un incipit vivace, la trama perde il suo ritmo fino a circa metà del romanzo e ci regala più di qualche sbadiglio.
Conosciamo meglio Vivien, a sua storia e quel che resta della sua famiglia, ovvero una nipote adolescente che si trova in una comunità gestita dalla Chiesa per disintossicarsi dall'abuso di sostanze stupefacenti.
L'impressione è che tutto questo c'entri ben poco con la trama principale, fino a quando l'autore degli attentati non va dal sacerdote che gestisce la comunità per confessare i suoi crimini (senza naturalmente aver alcuna intenzione di fermarsi).
Questo passaggio finalmente riaccende la curiosità del lettore; il ritmo si risveglia e si mantiene su buoni livelli fino al finale che è molto, molto, molto, molto deludente.
Non solo il colpevole è la persona più improbabile di tutto il romanzo; ma una volta svelataci la soluzione, ci rendiamo conto che l'autore ha barato. Ci ha spacciato per vere alcune cose, alcuni dettagli, alcune situazioni, che poi si sono rivelate impossibili, mai accadute o accadute in maniera diversa.
E secondo me, questo è il peccato più grave per uno scrittore di thriller e romanzi gialli.
Oltretutto la soluzione è davvero frettolosa, tirata per i capelli e lascia l'amaro in bocca.
Che salverei di questo libro? Direi poco o nulla. Lo stile di Faletti mi piace, è evocativo e risveglia le immagini che descrive nella mente del lettore.
So che c'è stata una piccola polemica fra l'autore e una giornalista, secondo cui il romanzo non sarebbe opera di Faletti, ma di un ghost writer di lingua americana, e Faletti si sarebbe limitato a tradurlo dall'inglese. Specchio rivelatore sarebbero alcune espressioni idomatiche tipiche dello slang americano tradotte letteralmente, e non adattate alla lingua italiana.
Ora, io ho letto il romanzo e non mi ero accorta di nulla. Non sentivo nulla di particolarmente stonato nelle scelte linguistiche dell'autore.
Oltretutto mi chiedo perchè si dovrebbe pagare un ghost writer per scrivere un romanzo, e non un buon traduttore per renderlo in lingua italiana.
Infine, sinceramente lo stile non mi sembra tanto diverso da quello degli altri romanzi di Faletti, quindi, secondo me, queste accuse lasciano il tempo che trovano.
Sarebbe più opportuno, sempre a parer mio, concentrarsi sugli altri problemi del romanzo.
Infatti, polemiche a parte, e nonostante tutta la stima che ho di Giorgio Faletti, mi sento di sconsigliare vivamente la lettura di Io sono Dio, perchè è un pessimo esempio di thriller.
Oppure di un ottimo esempio di quello che un thriller non dovrebbe essere.

venerdì 16 ottobre 2009

La ragazza fantasma...

...di Sophie Kinsella.

La vita di Lara è decisamente in crisi. La sua socia è sparita, lasciandola nei guai; il suo ragazzo, di cui è ancora innamoratissima, l'ha mollata; e la sua famiglia pensa che lei cominci a dare qualche segno di esaurimento. Nel bel mezzo di questa crisi personale, al funerale di una prozia sconosciuta, Lara incontra Sadie, che altri non che... il fantasma della defunta, che inizia a tormentarla perchè non vuole essere seppellita senza la sua collana. Lara, incalzata da Sadie, blocca il funerale e comincia a dare la caccia al monile, compito che si rivelerà, naturalmente, meno facile del previsto.

Questo è un romanzo tipicamente kinselliano (lo so che questa parola non è esiste, l'ho appena inventata).
C'è una giovane donna in crisi, brillante, ma incompresa. C'è un "problema" da risolvere, che ficcherà la protagonista in situazioni imbarazzanti e ai limiti dell'assurdo. C'è un manager di successo pronto a innamorarsi della protagonista. Ci sono gli antagonisti in apparenza belli, ricchi e perfetti, ma che sotto sotto nascondono le loro magagne.
Ritornate con la mente ai libri della Kinsella che conoscete, e ditemi se, con minime variazioni, una simile struttura non è presente in tutti.
Questo ripetersi dello schema, comunque, non è parer mio, una cosa negativa.
L'autrice scrive libri leggeri, ironici, di pura evasione, che altro scopo non hanno se non quello di far divertire e di strappare qualche risata. Se prendo in mano un libro della Kinsella, non mi aspetto altro.
Quindi, la presenza di uno schema tipico non allontana il lettore, casomai lo aiuta a calarsi nella storia.

Quello che non funziona nella La ragazza fantasma, è che lo schema non è stato sviluppato in maniera adeguata.

Prendiamo il problema da risolvere. Qui è la ricerca della collana, che si rivelerà essere qualcosa di più di un semplice oggetto a cui un'anziana signora era affezionata.
E' legata a un segreto, a un mistero, e qualcuno l'ha fatta sparire. Chi, e perchè?
Le domande sono molto intriganti, ma purtroppo, per pagine e pagine, la storia della collana viene accantonata, resta in sottofondo per dare spazio ad altri eventi, come ad esempio portare sulla ruota panoramica London's Eye il manager di successo che alla fine si innamorerà di Lara. Tutto molto bello, molto romantico ma... insomma, non stavamo cercando una collana?
Tra l'altro, come accennato, la collana ha una storia particolare; Sadie arriva a svelare a Lara particolari molto intimi della sua vita e della sua gioventù, eppure non accenna mai alla particolarità della collana, che avrebbe potuto indubbiamente mettere Lara sulla pista giusta per ritrovarla.
Non vi dirò come e perchè la collana è stata fatta sparire, però, alla fine dei giochi, ci si chiede come mai sia stata portata via proprio pochi giorni prima della morte di Sadie, quando invece il mistero di cui è la chiave è molto, molto vecchio.
Forse per permettere a Lara di indagare più agevolmente sulla sparizione. Chissà.

Prendiamo ora l'antagonista. E' lo zio della ragazza, che ha fatto una fortuna aprendo una catena di locali tipo Starbucks, per intenderci.
Ha scritto un libro di successo su come ognuno può diventare imprenditore di successo partendo da un capitale di due penny.
E' arrogante, superficiale, borioso, pieno di sè e di disprezzo per la sua famiglia. In una parola, insopportabile.
Per tutto il romanzo però, rimane sullo sfondo, senza mai ergersi a vero ostacolo, a vera nemesi della protagonista. E' come se se ne stesse ritantanato nella sua villa in attesa della resa dei conti finale.
A proposito di antagonisti, verso la conclusione, ricompare improvvisamente anche la socia e (ex)amica di Lara, quella che era sparita e l'aveva lasciata nei guai, economicamente e dal punto di vista lavorativo.
Bene, anche lei, che si presenta con la spocchia di chi crede di essere indispensabile, viene liquidata in tre pagine.
Ne abbiamo fatto a meno per un romanzo intero, c'era proprio bisogno che ricomparisse sulla scena solo per toglierci lo sfizio di farle avere quel che meritava?

E prendiamo adesso il manager bello, sensibile, intelligente e di successo destinato ad innamorarsi di Lara. Onestamente, aggiunge così poco allo sviluppo della trama, che io sono dell'opinione che tagliando via l'intera storia tra Lara e il manager, il romanzo avrebbe perso qualche gag, ma ne avrebbe indubbiamente guadagnato.


Questi sono sono alcuni esempi, estrapolati dalla trama.
Nei libri migliori della Kinsella, quando l'autrice è davvero ispirata, le situazioni assurde, irreali ma divertenti e imbarazzanti sono ben incastonate nella trama; ne fanno parte. In questo romanzo ho avuto più volte l'impressione che alcune trovate servissero solo ad aumentare il numero delle pagine. Potrei citare, ad esempio, quando Lara, costretta da Sadie, va a prendere un aperitivo col manager, vestita in tutto e per tutto come una ragazza degli anni 20. La Kinsella si dilunga eccessivamente sulla preparazione per la serata, sulla scelta degli abiti nei negozi vintage e infine sulla scena dell'aperitivo stesso.

Fin qui ho parlato di quello che non funziona. Bene, adesso parliamo invece di quello che funziona nel libro.
Innanzitutto, la figura di Sadie. E' originale, frizzante, eccentrica quel tanto che basta.
La sua storia e il mistero della collana sono interessanti e intriganti. A volte la sua eccentricità sembra un po' sopra le righe (come quando pretende che Lara si vesta da ragazza degli anni 20, o quando è gelosa dell'affascinante manager di cui Lara si innamora. Non si capisce perchè Sadie ci metta trenta secondi ad accettare il fatto di essere morta e di essere un fantasma, e 250 pagine a capire che se sei morta non puoi uscire con un ragazzo), ma rimane comunque la parte migliore della storia.

Lara, per quanto sia lo stereotipo della protagonista kinselliana, in fin dei conti risulta simpatica, e ha anche tratti originali, come ad esempio la sua ossessione, ai limiti dello stalking, per il suo ex.
Questo morboso, insano attaccamento, questo non accettare la fine della storia la rende meno perfettina, meno povera-ragazza-tanto-intelligente-che-nessuno-capisce-se-non-l'-amore-della-sua-vita e più persona vera, con delle sfaccettature.

Come detto, il mistero della collana è intrigante, incuriosisce e avvince il lettore. Fosse dipeso da me, gli avrei dato più spazio.

Per concludere, se volete la mia opinione (e magari se siete arrivati fin qui, la volete!) il libro si attesta sulla sufficienza. Da leggere in versione economica.